Omelia Messa Crismale 2014 – 15 aprile 2014

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Omelia Messa Crismale 2014 – 15 aprile 2014

Carissimi fratelli presbiteri e diaconi, consacrati e consacrate, seminaristi e fedeli tutti, in questa celebrazione della Santa Messa Crismale, appuntamento carico di significato per ogni ministro ordinato, l’appuntamento più significativo per il presbiterio diocesano, ci stringiamo con fede attorno a Cristo, e con le parole dell’Apocalisse lo riconosciamo come “Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6).

Permettetemi innanzitutto che esprima, a nome di tutti, l’affetto riconoscente verso i numerosi confratelli che celebrano i loro anniversari di ordinazione sacerdotale.

Un particolare augurio va a d. Antonio Rizzello per i 70 anni di sacerdozio, a d. Antonio Resta e a d. Gino Di Gesù per i 60 anni di vita sacerdotale e ai confratelli che celebrano il traguardo il cinquantesimo: d. Antonio Giuri, d. Giuseppe Leopizzi, d. Agostino Bove, d. Giuseppe Pulieri, d. Antonio Albano, d. Fernando Calignano, d. Giuseppe Alemanno. Auguri ancora ai confratelli che ricordano i 25 anni di ordinazione: d. Tommaso Rizzello, d. Albino De Marco, d. Giuseppe Marzano.

A tutti voi il grazie e l’abbraccio di tutta la nostra Chiesa.

Il ricordo e la preghiera questa sera è anche per i nostri Confratelli che servono la Chiesa Universale: innanzitutto S.Em. Mons. Fernando card. Filoni, mons. Alberto Tricarico, Mons. Giorgio Ghezza, Mons. Vincenzo Viva, d. Giuseppe Alemanno.

Un affettuoso augurio ai tre diaconi Pierluigi, Dario e Gabriele, che nel mese di giugno saranno consacrati presbiteri con il sacro Crisma che questa sersa consacreremo e a tutti i futuri cresimandi che saranno confermati nella fede nei prossimi mesi.

E ora un grazie a voi, fratelli presbiteri, qui presenti: la vostra presenza attorno a me rende visibile e bella la comunione sacramentale che ci unisce.

Stasera rappresentiamo l’intera comunità diocesana e sperimentiamo la gioia e l’orgoglio di appartenere alla Chiesa, sposa di Cristo, mistero di comunione.

Saluto voi rappresentanti delle confraternite, delle associazioni e dei movimenti: vi ringrazio per la partecipazione cordiale.

La Liturgia in questi giorni ci fa rivivere il grande mistero pasquale di Gesù.

Dai Vangeli sappiamo che in quei giorni a Gerusalemme, c’erano alcuni Greci che chiedevano a Filippo:

Vogliamo vedere Gesù“ (Gv 12,21).

E’ la stessa richiesta che riecheggia spiritualmente nelle nostre orecchie anche oggi. Come i pellegrini di duemila anni fa, gli uomini del nostro tempo, non sempre consapevolmente, chiedono a noi credenti, a noi presbiteri, non solo di « parlare» di Cristo, ma in certo senso di farlo loro «vedere», incontrare, toccare.

Diceva Giovanni Paolo II nella NMI 16 : “Non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio? La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto.”

Contemplare il suo volto, riflettere la sua luce, renderlo presente: è il compito a noi affidato con l’ordinazione presbiterale.

Ricordiamo le parole del rito di ordinazione:

“Per opera dello Spirito Santo…Tu aggregasti agli Apostoli dei collaboratori nel ministero per annunziare e attuare l’opera della salvezza”.

E poi: “Il Signore Gesù Cristo che il Padre ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti custodisca per la santificazione del suo popolo e per l’offerta del sacrificio.“

“Renditi conto di ciò che farai imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della Croce di Cristo Signore

Non possiamo svilire queste attese di Dio e della chiesa: anzi ci dobbiamo impegnare per rendere sempre efficace e luminosa la nostra testimonianza.

Con l’annuncio della Parola e la celebrazione dei sacramenti noi realizziamo la nostra vocazione cristiana e sacerdotale e rendiamo attuale la redenzione. Nell’oggi di ogni nostra giornata, l’amore salvifico del Signore si fa reale per noi e attraverso di noi per i fratelli. Ogni anno è per noi anno di grazia del Signore.

Ma ciò che un giorno è avvenuto a livello sacramentale con l’imposizione delle mani e l’unzione del S. Crisma, deve impregnare raggiungere il nostro essere profondo, deve orientare l’adesione della volontà per  operare la trasformazione.

S. Agostino, offrendo un esempio di applicazione in chiave personale e morale dei misteri della vita di Cristo, esortava in questo modo: «Cristo ha patito; moriamo al peccato. Cristo è risuscitato; viviamo per Dio. Cristo è passato da questo mondo al Padre; non si attacchi qui il nostro cuore, ma lo segua nelle cose di lassù. Il nostro capo fu appeso a un legno; crocifiggiamo la concupiscenza della carne. Giacque nel sepolcro; sepolti con lui dimentichiamo le cose passate. Siede in cielo; trasferiamo i nostri desideri alle cose supreme. Egli risusciterà anche i corpi dei morti; al corpo destinato a mutare procuriamo meriti, mutando mentalità» (discorso 229/D,1)

L’essere trasformati dalla grazia dell’Ordine Sacro, l’agire in persona Christi nella Liturgia, porta ad avere lo sguardo di Cristo e guardare gli altri come li guarda Lui.

Gesù si è fatto prossimo, si è nascosto nel fratello, nel povero, e ci ha insegnato la strada per andargli incontro e servirlo.

Sempre Giovanni Poalo II diceva nella NMI:

Dobbiamo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l’annuncio del Vangelo, che è pure la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole” (NMI, 50).

Solo così possiamo seminare nella storia i semi del Regno di Dio che Gesù stesso ha posto durante la sua vita terrena andando incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali” (cfr. NMI, 49).

Tornando ai Greci che volevano vedere Gesù, possiamo pensare che non lo cercavano solo per motivi di curiosità, ma perché sicuramente avevano delle attese nel loro cuore.

Anche oggi l’uomo conserva delle attese, è mosso da speranze, desidera migliorare la qualità della vita.

La nostra diocesi ha impostato il programma pastorale di quest’anno sulla virtù della speranza.

Non so quanto questa virtù stia incidendo sulla nostra vita e sulla nostra attività pastorale.

I sussidi non mancano, abbiamo celebrato la settimana teologica, le conferenze…

Ci sono tante piccole speranze che muovono il nostro agire quotidiano: c’è la speranza – purtroppo non diffusa – nella salvezza finale, ma ci sono quelle speranze più terrene: i risultati del nostro lavoro in parrocchia, l’apprezzamento su quanto facciamo, la crescita spirituale delle persone, la risposta concreta ai bisogni della gente…

E questo genera ansia e fatica pastorale, a volte provoca la sensazione di fallimento, quella sensazione tipica del contadino davanti al terreno che non dà frutti: vediamo i ragazzi che scappano dopo la cresima, le messe dissertate, una richiesta frequente di sacramenti senza fede, i confessionali deserti …

In pochi anni sono cambiate le nostre parrocchie. Viviamo e operiamo in comunità, cattoliche per tradizione, ricche di religiosità popolare, ma è come se fossimo in terra di missione.

Da soli non possiamo farcela.

Abbiamo bisogno della collaborazione di fedeli laici formati, che si assumono le proprie responsabilità, abbiamo bisogno che anche tra noi presbiteri ci sia più condivisione della fatica, più sostegno, per affrontare con rinnovato slancio le situazioni complesse di oggi.

 Abbiamo bisogno di speranza per comunicare speranza.

Allora attingiamo speranza dalla grazia della vocazione: è Cristo che ci ha scelti, chiamati, trovati, mandati.

Noi abbiamo semplicemente aderito a una sua decisione. La bellezza della nostra vita sta nel fatto che il Signore ha pensato a noi, e la sua è una chiamata continua, dura tutto il tempo della nostra esistenza, ogni giorno aspetta il nostro, eccomi!

E ci manda a lavorare nella sua vigna. E noi, contenti, ci sentiamo a suo servizio, 24 ore su 24.

E ogni mattina diciamo: Signore darò oggi tutto me stesso per te e il tuo gregge! E affiora la gioia del nostro celibato vissuto per amore e con gioia.

E ogni giorno, dopo aver celebrato l’Eucaristia, e aver sostato sulle letture e meditato i testi sacri, usciamo dalla chiesa e ci inoltriamo nelle vie delle nostre parrocchie, che sono l’altro libro dove leggiamo e scopriamo le gioie e i dolori, le tentazioni e le attese, dove incrociamo lo sguardo dei fratelli, e accendiamo speranza…

Dio resta sempre sorgente di consolazione e di speranza.

E infine, non trascuriamo il dovere di alimentare la speranza nel cuore dei nostri fratelli sacerdoti.

Giovanni Paolo II diceva in NMI 43: “Spiritualità della comunione è capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un «dono per me», oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è saper «fare spazio » al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie”.

Quando accogliamo questi confratelli come dono, persino se ci risultano un peso per il carattere o per le fragilità umane, è segno che stiamo ascoltando la voce dello Spirito Santo e che i suoi frutti “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,21) incominciano a dare volto alle nostre relazioni reciproche.

 Coltiviamo questi spazi di comunione e dilatiamoli giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto delle nostre comunità.

La comunione fa bella la Chiesa e rende bello il presbiterio e la nostra gente ha bisogno di gustare questa bellezza.

J. Loew, nel un suo libro autobiografico intitolato “Dio incontro all’uomo”, ricorda i cinquant’anni del suo incontro con Dio. Scrive: “Sono cinquant’anni che ho incontrato Dio. Avevo allora 24-25 anni. Che cos’è dunque avvenuto? Niente di eccezionale, niente di folgorante. Qualcosa come un’aurora che sorge, una nebbia che si dirada, un amore che nasce. E niente di eccezionale da allora, se non cinquant’anni di felicità interiore. Una gioia profonda. Una luce dentro. Un quadro composto da colori che avranno questi nomi: pace, gioia, serenità nelle avversità, certezza di esistere, certezza di essere amato” .

Stasera chiedo a Dio che venga data anche a noi questa felicità.

 

 

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